Italo Disco. Il suono scintillante degli anni 80: la premiere in Baviera il 9 luglio a Monaco
Il racconto di un genere musicale che conquistò il mondo durante un decennio cibernetico: c’è questo, ma non solo, alla base di Italo Disco. Il suono scintillante degli anni 80.
L’ultimo documentario del regista e produttore Alessandro Melazzini verrà proiettato il 9 luglio alle 18:00 a Monaco di Baviera al Kino Neus Rottmann nella sua versione per i festival (entrata libera) e sarà da quel giorno in poi visibile nella mediateca di ARTE, dove andrà anche in onda nella tarda serata del 29 luglio.
Italo Disco, “il suono di un’epoca molto spesso raccontata, ma non sempre davvero capita”
Classe 1974, valtellinese di nascita, Alessandro Melazzini ha fatto da ben 23 anni della Germania la sua Wahlheimat e dal 2004 di Monaco di Baviera la sua città del cuore. Qui, dopo aver lavorato come autore, giornalista e traduttore freelance, ha autoprodotto nel 2010 il suo primo film documentario e fondato la propria casa di produzione, Alpenway Media GmbH. La sua ultima fatica è dedicata alla nascita e allo sviluppo di un genere musicale dalle molteplici anime, l’italo disco, appunto. È una narrazione accurata e basata su un’attenta ricerca di materiale d’archivio del tempo, quella che Alessandro svolge nel suo documentario. Essa riesce a coinvolgere e immergere lo spettatore nella narrazione pop di quella che è stata non solo una musica da ballo, ma anche un’estetica, un fenomeno sociale e una industria della creatività.
“Mi ha attirato moltissimo la sfida intellettuale di avvicinarsi a un tema insolito e considerato minore, se non addirittura trash, per svelarne la complessità, la genialità e, soprattutto, la dignità”, ci racconta Melazzini spiegando le ragioni che l’hanno portato alla scelta di raccontare questo fenomeno profondamente italiano e pressoché sconosciuto dal mainstream, nonostante l’estrema popolarità di molti pezzi. “Fare davvero cultura credo non sia continuamente riproporre le stesse cose che tutti conoscono e sono ammirate da tutti, ma varcare nuovi campi e prospettive insolite. Voglio dire, sono infinite le serate dedicate dai gruppi italiani in Germania a Pirandello e Pasolini. Va benissimo, ma c’è anche altro. Insomma, era tempo che ci si avvicinasse a queste genere italiano così bizzarro, che peraltro è stato quello che ha esportato più dischi nel mondo”.
Italo Disco abbraccia in qualche modo Italia e Germania, mettendo in relazione un fenomeno musicale radicatamente italiano con il paese in cui poi questo fenomeno ha acquisito una rilevanza internazionale. “Il mio interesse era dimostrare che questa musica ha varcato le Alpi negli anni ’80 e, tramite la Germania, si è diffusa nel mondo. C’è un forte legame tra Italia e Germania nella Italo Disco, e passa anche per Monaco, come sarà chiaro dopo aver visto il documentario. Ma per ora non voglio svelare di più”.
Il film, pur essendo per la televisione, ha già partecipato a numerosi festival artistici in tutto il mondo, da Buenos Aires, Lisbona e Varsavia, diventando anche il film di chiusura del Festival del Cinema Tedesco di Roma nel marzo 2022. “Credo che i selezionatori di quelle rassegne abbiano apprezzato la capacità di raccontare un fenomeno in maniera accattivante, riuscendo a illustrarne gli aspetti sociali, economici, produttivi. Per questo è passato sia ai festival di film musicali sia a festival di cinema d’autore. E soprattutto, piace a tipi di pubblico molto diversi. Pur trattando un tema particolare e molto italiano, quindi, evidentemente interessa anche persone di culture completamente differenti”.
La formazione tra Milano e Heidelberg e l’arrivo a Monaco di Baviera
Prima di approdare in Germania, Melazzini si laurea “per imposizione familiare” in economia politica all’Università Bocconi di Milano, dove segue anche dei corsi di filosofia su Martin Heidegger, che gli fanno capire di volersi poi dedicare alla filosofia. Si trasferisce quindi a Heidelberg, dove consegue una laure in quella materia. La tappa successiva è Monaco di Baviera, dove mette radici e fonda Alpenway, la sua casa di produzione. “Arrivai a Monaco la prima volta nei primi anni Novanta e me ne innamorai. Mi innamorai dell’immensità di verde presente in città, così come della bellezza dei suoi laghi e dalla bonomia di molti dei suoi abitanti, aiutato in questo anche dal fatto che la famiglia dove risiedevo: appena giunto da loro, infatti, mi portarono in un Biergarten di Planegg mettendomi davanti mezzo litro di birra. Capii che la Germania non era solo doverismo e grigiore, come molti cliché la descrivevano. Poi però non diedi seguito all’apprendimento della lingua, pur essendo tornato a Monaco alcun volte, fino a quando, a fine anni Novanta e conseguita la prima laurea, mi trasferii in Germania sì, ma ad Heidelberg. Sebbene per molti anni, durante la Bocconi, mi fossi dedicato svogliatamente allo studio del tedesco, quando capii in quale direzione si stava sviluppando il mio percorso, trasformai l’apprendimento della lingua tedesca da un tormento in una sfida appassionante. Scelsi la città sul Neckar perché nel mio immaginario era la patria della filosofia tedesca, ma anche perché sapevo che aveva un seminario di filosofia molto tradizionale, dove si insegnavano i classici del pensiero greco e dell’idealismo tedesco. Io mi sono sempre più interessato ai moderni, ma credevo che la scelta di una seconda laurea dovesse essere svolta per apprendere i classici del pensiero, per apprendere il canone, non per proseguire le proprie passioni. Una volta ottenuta la laurea in filosofia, finalmente mi trasferii nella città che amo: Monaco di Baviera”.
Il rapporto con la Germania e l’italianità: “vivere sul confine significa vivere il doppio perché vuol dire abitare in due mondi”
Il legame culturale e sentimentale con l’Italia e la Germania influenza in modo sostanziale il suo lavoro in ambito audiovisivo e segna la scelta tematica di molti dei documentari che produce e dirige con Alpenway. “Ho la doppia cittadinanza e la mia carriera documentaristica l’ho iniziata proprio in Germania. Quindi c’è un elemento tedesco, anche perché collaboro con Arté, il canale culturale franco-tedesco, e quindi giocoforza il mio sguardo è verso l’Italia, che cerco di raccontare al di là degli aspetti classici. Alle volte mi piace, insomma, trattare temi che inizialmente possono sembrare superficiali mostrando quello che c’è dietro. Poi c’è da dire che, sebbene mi sia immerso nella cultura tedesca al punto di lavorare come corrispondente culturale prima di diventare filmmaker a tutto campo, cionondimeno la mia socializzazione primaria è avvenuta in Lombardia, dove ho vissuto fino a 25 anni, tra i monti della Valtellina e i grattacieli di Milano. Quindi direi che in primis ho una visione pragmatica e imprenditoriale della vita, concreta, e un ethos del lavoro profondamente lombardo. Per certi versi più vicino alla cultura della dedizione prussiana, che a quella del godimento barocco bavarese. A questo piano si aggiunge l’amore per la cultura tedesca – attraverso i libri, ma anche immergendomi nella società dove ho scelto di vivere. Non senza tensioni, non senza dolore, ma sempre consapevole che vivere sul confine significa vivere il doppio perché vuol dire abitare in due mondi. Se quando scrivevo per i quotidiani italiani parlavo di Germania, ora che faccio film e mi rapporto principalmente con le emittenti tedesche, diventa naturale proporre tematiche legate all’Italia. Vi è quindi un motivo concreto, di street credibility, che mi porta a ritrarre il Paese da cui provengo. Ma vi è anche un legame sentimentale, perché quando andai via dall’Italia nel 1999 lo feci per inseguire un mio ideale humboldiato di formazione culturale, ma anche perché disgustato dalla situazione politica e sociale, desideroso di un altro tipo di approccio alla cosa pubblica, alla natura, alla cultura. Pensai di trovarlo nella mia Wahlheimat. Poi con gli anni gli angoli si smussano e si riesce a comprendere meglio i limiti e i vantaggi di un luogo e dell’altro, e con un po’ di fortuna si riesce a trovarsi bene ovunque si viva, anche perché, a furia di fare il tedesco, non potevo non innamorarmi dell’Italia”.
L’italianità nella sua carriera lavorativa, insomma, diventa una plus valore, che va oltre i temi trattati nei suoi lavori, ma è anche un modus operandi, una finezza nello sguardo e una attenzione al dettaglio. “Di recente in una videointervista lo sceneggiatore Fabio Di Ranno, in arte Biro Fandonia, ha detto che secondo lui italianità è la capacità di andare nel profondo mantenendo l’ironia, e questo l’ha riscontrato nel mio documentario. La trovo una osservazione molto fine. E aggiungo che italiana, come si vede nel film, è anche la maniacale attenzione al dettaglio, sia essa un’attenzione volta a creare un sonetto, o disegnare il volantino per una discoteca, creare un abito di alta sartoria, o un pezzo di meccanica per un bolide. Un’attenzione maniacale, finissima, nella quale estetica ed etica si cercano e talvolta s’incontrano”.
Valentina Pinton