Gusto! Gli italiani a tavola, 1970-2050
“La cucina italiana è il prodotto, in costante evoluzione, di una storia fatta di incontri”
"Una mostra sul cibo, senza cibo è già una sfida” ammette Luca Molinari, direttore scientifico del Museo del Novecento di Mestre, dove fino al 23 ottobre è aperta la mostra Gusto! Gli italiani a tavola, 1970-2050. Eppure il gusto italiano di cui l'esposizione porta il nome si percepisce ovunque, in ogni sala, anche senza sentirne il profumo né la consistenza tra i denti: parla e si fa raccontare da filmati, oggetti iconici di design, foto ricordo personali di grandi e piccole tavolate familiari, menù e prodotti di consumo diventati patrimonio mondiale, avveniristiche innovazioni tecnologiche. E la mostra riesce nel suo intento: indagare la relazione degli italiani con il gusto – e quindi con la cucina, i prodotti, i territori, le storie, i viaggi e le tradizioni – per raccontare la metamorfosi identitaria, culturale e sociale di una comunità, proiettandola anche verso nuove, futuristiche sfide. “Una casa con tante stanze, o una piccola città con tante case: questa è la struttura che abbiamo voluto per la mostra”, racconta Molinari. “Perché l’idea è che non c’è un modo solo per raccontare il gusto italiano, ma tanti argomenti, in un grande libro di cui ogni stanza è un capitolo. Non poteva che essere questa la prima delle tre mostre che abbiamo progettato per raccontare la storia materiale contemporanea degli italiani. Attenzione, il tema non è il cibo degli italiani ma il gusto, una parola che mette insieme passione individuale e narrazione collettiva, come la tavola, che vede il cibo come parte di un racconto sociale comunitario, soprattutto dopo la pandemia. Senza dimenticare il futuro, perché è importante lasciare che le mostre siano anche un modo per riflettere su quello che siamo e su cosa potremmo diventare. Del resto, penso che i luoghi di cultura oggi debbano essere delle case aperte, dei laboratori sul presente capaci di interrogare un tempo di cambiamento”.
La mostra ci introduce così in otto stanze del gusto (gusto italiano, gusto della casa, gusto fuori casa, gusto dell’industria, gusto del viaggio, gusto dell’incontro, gusto di oggi, gusto del futuro) che raccontano il tema della mostra attraverso immagini, video, oggetti iconici e testimonianze. Un vero e proprio atlante del gusto italiano, che si fa sfogliare in una finestra di tempo che parte dal 1970 e apre prospettive fino al 2050. “La mostra si apre con gli anni Settanta, perché fu allora che il mondo del cibo italiano visse una metamorfosi importante con l’entrata in gioco di due elementi fondamentali: il primo è la progressiva industrializzazione della produzione di cibo in Italia, con la nascita dei grandi marchi alimentari come Ferrero, Barilla, Lavazza, e poi socialmente con la nascita del mondo di supermercati e della comunicazione. Il marketing e la pubblicità del cibo, del resto, cominciano con i caroselli degli anni Settanta. Insomma, quel periodo fu il momento in cui il cibo diventò un prodotto per tutti, di largo consumo: ormai il desco degli italiani non era più una tavola di sostentamento, da dopoguerra, ma una tavola totalmente diversa. Il 2050, invece, ci sembrava un orizzonte adeguato pensando ai prossimi tre decenni che abbiamo davanti a noi”.
“La cucina italiana è il prodotto, in costante evoluzione, di una storia fatta di incontri”, ci ricorda Massimo Montanari, uno dei curatori della mostra. E, in effetti, non c’è cibo al mondo che non sia prodotto di interazioni tra soggetti, storie, culture e sguardi diversi. Lo stesso vale per la cucina italiana. “Non c’è una cartolina fissa del nostro cibo: ogni piatto muta nel tempo in rapporto a chi lo prepara, chi lo mangia e chi lo vuole, e quindi se si pensa alla storia della cucina italiana, si realizza che è fatta di piatti che hanno radici… nel mondo intero! Pensiamo solo agli spaghetti al pomodoro, forse il piatto più italiano che esista. Ma in realtà è frutto di tante esperienze, incroci di culture che hanno consentito di realizzarlo. La pasta secca di formato lungo è forse di origine persiana. Gli arabi la diffondono in Sicilia, dove, nel XII secolo, è testimoniata la prima industria pastaria della storia. Alla pasta si affianca il formaggio grattugiato, che rimane per secoli il suo principale accompagnamento. La salsa di pomodoro è una preparazione americana, che gli italiani importano dalla Spagna nel Seicento; solo due secoli dopo, a Napoli, viene provata sulla pasta. Dapprima affianca il formaggio, poi diventa il condimento principale. A questo punto compaiono l’aglio e la cipolla, prodotti antichissimi ma inadatti ad accompagnare il formaggio. Arrivano poi il basilico e l’olio di oliva, anch’esso un prodotto antichissimo ma di uso molto recente per condire la pasta, dato che fino all’Ottocento si preferiva ungere col burro o con il grasso di maiale. Gli spaghetti, dopo avere caratterizzato la Sicilia e Napoli, diventano poi un’icona della cucina italiana. Forse l’esempio più illustre della “meridionalizzazione” che nel corso del Novecento investe la cultura gastronomica del paese, con i milioni di migranti che da Sud importano una serie di piatti e materie prime che non erano quasi usate al Nord. Tutte dimostrazioni del fatto che il cibo è un elemento di unione e comunione, di scambi e dialogo, di confronto e di scontro, ma anche un tema centrale, che racconta come è cambiata, sta cambiando e cambierà la nostra società”.
Come conferma anche una indagine condotta nel 2019 dal gruppo di ricerca londinese YouGov su 25 mila famiglie nel mondo, la cucina italiana è la più amata al mondo, con una popolarità media dell’84% in 24 paesi. I piatti più amati sono pizza e pasta, come sempre. La percezione e l’apprezzamento della cucina italiana all’estero, però, rappresentano una questione complessa. La sezione dedicata al “Gusto del viaggio” apre delle riflessioni sul tema, dando degli spunti sul modo in cui esportiamo il gusto italiano del mondo e anche su come il mondo vede il gusto italiano e l’Italia attraverso il cibo. Un video mostra sequenze di film e pubblicità straniere che ripropongono cibo italiano secondo i tipici stereotipi sull’Italia, che, nonostante tutto, giocano un ruolo attivo nel promuovere il brand del cibo italiano. “Una delle cose per cui siamo assolutamente riconosciuti al mondo è sicuramente, oltre l'arte, la moda e il design, il cibo, anche questa una grande forma di creatività”, conferma Molinari. “Lo dimostra il fatto che ci siano tanti fake in giro per il mondo. Questo, che per noi è un danno, dà anche l’idea di quanto l'immaginario mondiale sull'Italia e sul cibo sia ricco e composito, tanto che per vendere i propri prodotti li si spaccia per italiani”. Un fenomeno, quello dell’Italian sounding (riuso ai fini di marketing di parole e immagini evocativi del nostro Paese) sempre più diffuso nel mondo, al punto che più di due prodotti agroalimentari italiani su tre nel mondo sono da ritenersi falsi.
L’ultima stanza della mostra, dedicata al “Gusto del futuro” apre, da un lato, alle innovazioni tecnologiche (spazio e coltivazioni sperimentali anche sulla Terra), dall’altro si focalizza sulla trasformazione delle abitudini alimentari. Quindi, su come mangeremo nei prossimi anni, come prepareremo il nostro cibo – temi, questi, particolarmente agli onori delle cronache in questi giorni, in cui molto si parla delle tecniche per risparmiare cucinando, o come essere sostenibili in cucina. Molinari riassume con tre parole le sfide che ci aspettano: “Territorio, comunità e sostenibilità. Territorio perché c'è un ritorno dell'agricoltura del cibo al territorio inteso come matrice della qualità, della produzione come cibo e come cura del territorio stesso. Comunità intesa come luogo aperto, in cui le differenze e chi vi abita costruiscono forme nuove del mangiare insieme, del cibo. Sostenibilità perché la mancanza di acqua, le siccità, la crisi energetica, la scarsità di cibo imporranno un modo sostenibile e intelligente di continuare a mangiare un bel piatto di spaghetti, forse in maniera completamente differente, magari con tecniche diverse, con materiali affini e un’attenzione al consumo totalmente differente. Credo che questi tre termini non possano che farci giungere a questa consapevolezza: cioè più capiamo più conosciamo, più siamo consapevoli dell’importanza del cibo, della sua qualità strutturale, della sua ricchezza come patrimonio, più ce ne prendiamo cura. E meno sprechiamo”.
Valentina Pinton