La storia di Remo Vazon, sopravvissuto al campo di concentramento di Flossenbürg
“Mio padre era prigioniero politico, gli avevano assegnato il triangolo rosso, perché lui era partigiano in alta Val di Susa, non lontano dal confine con la Francia. È stato arrestato in via Roma a Torino, quindi in pieno centro, il 3 novembre del ’44, in quanto complice di un attentato che i partigiani avevano compiuto contro il commissario politico del Fascio di Exilles, Flaviano Di Sessa”. Lo racconta Sandro Vazon, figlio di Raimondo, detto Remo, partigiano che, a 18 anni, fu catturato dalle Brigate Nere a Torino e deportato al campo di concentramento di Flossenbürg, e a seguire ai lavori forzati a Porschdorf e Oelsen. Remo ricordava così il suo arruolamento all’interno delle squadre partigiane, nella testimonianza resa nel 1982 a Barbara Berruti, allora direttrice dell’Istituto storico della resistenza (la sua storia è tutta documentata, dall’arresto fino al dicembre del ’45, su supporto audio e in trascrizione sul sito di ISTORETO): “Posso confessare questo, che non era tanto lo spirito patriottico, quanto lo spirito di avventura. A 17 anni non si pensava a difendere, a morire per la patria, però era tutto entusiasmante, sembrava veramente di partecipare, di far qualcosa di nuovo, di grande e che sarebbe servito poi più avanti. Perché a 17 anni è difficilissimo capire quello che succede attorno”.
Dev’essere stato un brusco risveglio da questo sogno di avventura il suo arresto, dopo il quale viene tradotto all’Hotel Nazionale di Torino: qui le Brigate Nere lo picchiano e torturano per tre giorni. “L’hanno costretto a confessare che era parte di questo gruppo di partigiani ed è stato poi portato nelle carceri Nuove di Torino, dove è rimasto circa un mesetto. Attraverso delle conoscenze, riescono a toglierlo dalle mani delle Brigate Nere, che ormai avevano firmato la sua condanna a morte, e farlo passare sotto il comando tedesco. Poi, come tutti gli italiani che venivano deportati in Germania, è approdato al campo di smistamento di Bolzano”, racconta il figlio Sandro, “dove le condizioni non erano così terribili perché si trattava di un campo di transito in cui si decideva in quale campo in Germania o in Polonia mandare i deportati. Arrivò a Flossenbürg il 3 febbraio del 1945”.
Il viaggio in treno su un vagone bestiame dura circa cinque giorni e già all’arrivo lo mette di fronte alla tragica realtà del campo. “Un puzzo da morire, freddo boia! una fame... non siamo mai scesi, neanche per bere” riportava Remo nella sua testimonianza, “non sono mai state aperte le porte, niente, nulla, finché un bel giorno, e qui di nuovo chiarissimo per me, il treno si ferma, io stavo sotto la grata, sotto l’apertura in alto... guardo, e vedo una catasta di cadaveri, non so saranno stati 60, 70, 100, non lo so, più o meno eran quelli, tutti nudi, tutti, una catasta, una montagnola, proprio vicino ai binari.... io se non sono impazzito in quel momento non impazzirò mai più, perché io da sempre, da quando son nato ho sempre avuto timore dei morti, e non ho voluto nemmeno vedere mia nonna morta, talmente avevo il terrore dei morti”.
A Flossenbürg rimane poco meno di un mese, in condizioni drammatiche. Solo il suo desiderio di sopravvivenza lo porta avanti. “La vita lì era grama, ho cominciato a sentire veramente i morsi della fame, ha cominciato di nuovo a insorgere la disperazione, ho detto: qui è tutto finito, però poi il mattino dopo era sempre combattuto: devo campare, io voglio tornare”. Il ricordo degli appelli rimane tra i più terribili: “Gli appelli erano qualcosa di micidiale, perché l’appello intanto era fatto fuori, al freddo, ai primi bagliori, alle prime luci, durava sempre mezz’ora, un’ora, tre quarti d’ora. Non importa quale tempo, sull’attenti, rigidi, lì cadevano uno dopo l’altro come le mosche”.
A Flossenbürg venivano scelte le persone in funzione anche alle caratteristiche fisiche per andare a lavorare nei sottocampi. Remo vieni quindi mandato a Porschdorf, un paese in Sassonia a una quarantina di chilometri da Dresda. Remo non poteva dimenticare la marcia forzata che aveva portano lui e i suoi compagni nel nuovo luogo di detenzione e di lavoro. “Ci fanno fare una camminata che non finisce più, ci fanno dormire nella notte in cascine, intanto in questa camminata, parecchi cadono. Ormai esausti, eh... si sentono solo dei colpi, dei colpi di pistola. Oh, che so io! le file si diradavano sempre di più”. Come ricorda il figlio Sandro, “il paese si trovava in una valle molto umida, in cui c’erano delle centrali elettriche. Lui era impiegato a spostare pietre perché stavano costruendo delle gallerie. Questo è stato il posto peggiore, ricordo cosa mi raccontava: era peggio ancora di Flossenbürg, le condizioni erano veramente terribili lì”.
A Porschdorf Remo si trova ai lavori forzati, come riportava all'ISTORETO: “Io ricordo portavo ‘ste pietre, crollavano tutti, tanti stavano a raccontare le Ave Maria, il Rosario, io dicevo: io torno, io torno, io torno, io torno, posavo la pietra, riprendevo l’altra, tornavo indietro: io torno, io torno”. “Ci portavano fuori a fare delle barricate di tronchi su una statale, per cui ormai era prossimo l’arrivo dei russi, si sentivano le cannonate”. Lui e i suoi compagni di sventura si scontrano, oltre che con le condizioni al limite della sopravvivenza imposte dalle SS anche con il disprezzo degli abitanti del posto, in particolare i più giovani: “Mi ricordo andavo fuori, e c’erano i ragazzini che andavano a scuola, seguivano la colonna, sputavano addosso, e questo è quello che mi faceva più dispiacere, perché io capisco i grandi, ma i ragazzini, avranno avuto sei, otto, dieci, dodici anni, questo sputare, questo imprecare, questa voglia di venirti addosso e darti i calci negli stinchi, ma non potevano perché la guardia non lasciava avvicinare, ma se avessero potuto… Ci avrebbero sbranati, eppure eran bambini, eran ragazzini da...da non più di dieci, dodici anni”.
Da Porschdorf Remo viene poi nuovamente trasferito in un paesino vicino Dresda, Oelsen. È ormai l’aprile del 1945. Come racconta il figlio Sandro, “l’hanno portato in questo cascinale molto grande in aperta campagna che poi io ho ritrovato qualche tempo fa dopo anni di ricerche e nel quale voglio apporre una targa per ricordare la sua liberazione. Tantissimi detenuti sono morti in questa fattoria, molti dei quali italiani, di cui uno era molto amico di mio papà. Lui mi parlava più che altro di quest’ultima fase della prigionia, proprio perché aveva perso dei cari amici lì. Finalmente tra l’8 e il 9 maggio i tedeschi hanno abbandonato tutti i prigionieri e mio padre e gli altri sopravvissuti sono stati liberati dai russi”.
Da lì è l’inizio della procedura per il rientro in Italia, che è stata lunghissima, in un viaggio rocambolesco in cui passa da un ospedale russo, in cui viene curato per il tifo, ai campi di raccolta russi e americani, da Chemnitz all’Elba, per poi scendere ad Augsburg, Innsbruck, Brennero, Bolzano, Riva del Garda, Torino e poi finalmente a Pinerolo, sempre con mezzi di fortuna. “Da maggio è arrivato a casa nel dicembre del 45”, racconta Sandro, in quasi otto mesi di viaggio.
Il peso della memoria
“Le storie che mio padre mi raccontava della sua cattura a Torino nel 1944 e della sua prigionia in Germania erano abbastanza frammentarie, non lo faceva volentieri. Preferiva dimenticare”, riporta Sandro Vazon. Del resto, la sua esperienza in quei sette mesi di prigionia è di quelle che segnano per sempre un adulto, per non parlare di un ragazzo ancor poco più che adolescente.
Dopo il rientro a casa, le sofferenze fisiche terminano, ma iniziano quelle psicologiche. Remo si ritrova a fare i conti con l’elaborazione dell’esperienza devastante che ha vissuto. “E il rientro è stato molto duro! sicuramente non ero più io, notti e notti di urla, di salti nel letto, e mia madre preoccupatissima non si capacitava di queste cose. Incubi. Allora per evitare questo, l’unico sistema era andar a dormir tardi, avevo rintracciato i miei vecchi amici... di gioventù, mi ricordo che, dovevo assolutamente passare con loro il maggior numero di ore della notte, io mi ricordo andavo al Caffè Marto, che è là vicino al campo di calcio, e stavo là fino alle due, le tre, io non bevevo, e ho cominciato a bere, non fumavo, ho cominciato a fumare, l’importante era di non andare a letto, perché non volevo pensare, mi rifiutavo. Ma te la trovavi addosso, ti aggrediva il pensiero”.
Sandro ricorda bene che suo padre preferiva non partecipare ad alcuna commemorazione: “Mio papà è tornato a Flossenbürg una volta o due, per curiosità di rivedere quei luoghi, ma non lo faceva volentieri: ha sempre cercato di tenersi fuori da tutto questo”. Nella sua testimonianza resa all’ISTORETO, Remo infatti affermava: “Non penso che dovrò raccontare ancora a qualcuno, penso che questa è l’ultima volta. Non ne voglio parlare più io, basta. È passato, è chiusa una parentesi, è finito”.
Sandro riporta che, col tempo, il padre riuscì a fare pace con il popolo che gli aveva arrecato tanto dolore. “Io sono nato nel 1959, quindi erano già passati 15 anni da quando era tornato in Italia, però la sua memoria di quanto accaduto era ancora piuttosto viva e qualche rancore mi sembra di capire che ce l’avesse verso i tedeschi. D’altra parte, con tutto quello che aveva passato era abbastanza comprensibile. Poi, invecchiando ha cominciato a perdonare sempre di più, tanto che quando io ho conosciuto la mia attuale compagna, che è tedesca, l’ha subito adorata”.
È lo stesso Sandro Vazon, in cambio, a fare delle ricerche sulla storia del padre e a partecipare alle commemorazioni che si tengono a Flossenbürg: “Al Gedenkstätte donerò alcune cose che aveva portato via mio papà a fine guerra: tra queste una matricola di un internato, Giacomo Bassis, morto il 5 maggio '45 tra le sue braccia: l'aveva strappata dalla divisa del compagno per riuscire magari a consegnarla a qualcuno in Italia. Ma non avendo poi più trovato nessuno, era rimasta a casa nostra”. Al Gedenkstätte Flossenbürg Sandro ha già donato anche una corona di rosario che suo padre trovò nel locale docce al suo arrivo a Flossenbürg. La conservò per tutto il periodo delle sua prigionia e la riportò a casa con sé a fine guerra.
Sandro ha continuato a tenere viva la storia e la memoria di suo padre anche nelle diverse visite al campo. “Ho sempre tenuto i contatti con varie persone del Gedenkstätte e mi ci sono recato diverse volte. Ormai, per una questione anagrafica gli ex deportati rimasti in vita sono veramente pochi: quest’anno erano in sei alla commemorazione della liberazione, che si è tenuta il 24 aprile. Per questo l’anno prossimo i responsabili del Gedenkstätte vogliono impostare l’evento in modo diverso, coinvolgendo maggiormente i figli dei sopravvissuti al campo, in modo che si conoscano tutti e possano raccontarsi e scambiarsi i ricordi dei loro genitori di questa esperienza devastante. Che non può e non deve essere dimenticata”.
Valentina Pinton